Romano De Marco
Storie del borgo senza tempo
Fernandel, 2021
Recensione di Patrizia Debicke
Una breve antologia, arricchita dalla poetica e puntuale prefazione di Marilù Oliva, ma anche un’eccezionale apertura di orizzonte che rivaluta cose rare e belle: saper dare e ricevere amicizia, garantire rispetto, discrezione e attenzione verso i bisogni e le aspettative altrui.
Ce la regala Romano De Marco con alcuni brevi racconti, ambientati a Peccioli. Un regalo fatto con il cuore in mano a questo borgo toscano, Peccioli, idilliaco paesino della Vald’Era di circa cinquemila anime in cui regnano ordine, pulizia e tranquillità. Paesino che, oltre ad avere una struttura medioevale intatta, annovera tra i suoi monumenti l’Anfiteatro Fonte Mazzola, il Parco Preistorico di Peccioli e i suoi Siti Archeologici.
Con pochi chilometri di strada, poi, si arriva a Lajatico, allo splendido Teatro del Silenzio, immenso anfiteatro all’aperto voluto dal grande tenore Bocelli.
Storie del borgo è un omaggio doveroso a un luogo, alle persone illuminate che hanno scelto di viverci e a quelle che hanno anche scelto di lavorarci. Persone che portano avanti con impegno e amore il loro lavoro, quasi fosse una missione.
L’arte, la cultura, l’attenta considerazione del luogo e le sue immutate tradizioni sono state in grado di forgiare uno speciale incantesimo che, oltre ad andare al di là del tempo e della storia, scandendo la vita dei suoi abitanti, riesce a coinvolgere e affascinare anche i visitatori. Un perfetto palcoscenico per costringere ciascuno a riconoscersi, a guardare dentro se stessi in cerca di cosa veramente si voglia trarre dalla propria vita.
Attraverso sei piccole storie, ci immergiamo emotivamente nelle esperienze e nei sentimenti di alcuni personaggi, già comprimari del precedente romanzo di Romano De Marco, Il cacciatore di anime, anche quello ambientato a Peccioli.
A cominciare dalla prima, quella di Agnese, cinquantenne, bella e giovanile donna in carriera, pienamente appagata dalla professione di coordinatrice e direttrice di una Fondazione locale, formata solo da donne. Descritta nell’austera consuetudine giornaliera dei suoi gesti, dei suoi tempi e dei suoi metodi. Sempre gli stessi ogni giorno, a cominciare dal trucco mattutino seguito dal peccato di una prima colazione calorica, e sempre guidati da un ferreo autocontrollo. Agnese, donna forte, mentalmente lucida, credeva di essere immune da ogni fuga dalla realtà, da ogni cedimento, da ogni tenerezza, da un impossibile innamoramento, e invece basterà un corteggiamento quasi adolescenziale, un’illusione e tutte le sue certezze sembrano andare in fumo, minacciate all’improvviso dalla tentazione di assaporare la gioventù.
La seconda storia narra di Gino, il fruttivendolo, un tempo sempre aperto e amabile con la clientela, ma che da quando è vedovo cerca solo di convivere con la sua solitudine. Però Gino saprà aprirsi, dimenticare la sua diffidenza, comprendere e condividere il dolore dello straniero che vive sotto un nuovo nome a Peccioli da più di vent’anni. Offrendogli, con delicatezza, la sua presenza, ricambiato dal virgulto di un’amicizia.
Nella terza troveremo Remo, ventottenne matricola carabiniere appena assegnato a Peccioli, costretto a doversi accettare e a rifare i conti con gli errori del passato.
La quarta vede come protagonista Serse, ex professore universitario e cardiologo di fama, che vuole chiudere la carriera con un ritorno alla terra dell’infanzia. Una storia di generosità pragmatica, perché Serse ha compreso che amare significa anche riuscire a far fronte alla fragilità dei sentimenti, concedendo la libertà.
Nella quinta storia Teresa, bella donna e madre quarantenne, con un matrimonio un po’ zoppicante, potrebbe servirsi della sua passione per la scrittura per ingelosire il marito, ma rifiuta di accettare compromessi erotici e si rimette coraggiosamente in gioco.
Cinque racconti, cinque storie di vita quotidiana che termineranno con la intelligente, arguta, colta e sbalorditiva sorpresa finale descritta nella sesta storia, “La festa del ritorno”, in cui Matteo riesce a restituire a Peccioli quello che era di Peccioli.
Tra i comprimari, Romano De Marco si è divertito a inserire anche Sbragia, l’abile diavolo in veste di scrittore da lui creato per il romanzo Un po’ meno di niente, una specie di alter ego del suo autore.
Sei storie pennellate accortamente che parlano di donne e uomini normali che soffrono o hanno sofferto, amano, commettono errori, lottano, perdono, magari cadono ma non si nascondono mai e anzi si rialzano e vanno avanti per dimostrarci la loro voglia di ricominciare.
Un libro molto vero, reale che oltre ad annoverare tra le sue pagine anche importanti riflessioni sulla vita, sull’amicizia, sull’amore, costringe ciascuno di noi a fare i conti con le proprie scelte.
Romano De Marco, classe 1965, è dirigente responsabile della sicurezza di uno dei maggiori gruppi bancari italiani. Esordisce nel 2009 nel Giallo Mondadori con Ferro e fuoco, cui fanno seguito Milano a mano armata (Foschi, Premio Lomellina in Giallo 2012) e A casa del diavolo (Fanucci). Per Feltrinelli scrive Io la troverò, Città di polvere e Morte di Luna. I suoi racconti sono apparsi su giornali e riviste, tra cui «Linus» e il «Corriere della sera», e su oltre 20 antologie. Per Piemme ha pubblicato L’uomo di casa (Premio dei lettori Scerbanenco 2017), Se la notte ti cerca (Premio Fedeli 2018), Nero a Milano (Premio dei lettori Scerbanenco 2019) e Il cacciatore d’anime (2020). Infine, Un po’ meno di niente (con lo pseudonimo Vanni Sbragia) per Fernandel Editore, 2021.
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