Presento ai lettori del blog intorno all’angolo una parte dell’inizio del mio gialletto “Chi ha ucciso il campione del mondo? Scacchi e Crimine”, Prisma 2005, per capire se in qualche modo sono riuscito a creare una certa atmosfera. Ricordo che la seconda parte, riguardante il rapporto scacchi-crimine, è stata scritta magistralmente da Mario Leoncini.
Quando il giocatore di scacchi più forte del mondo entrò nella splendida sala del CRAL del Monte dei Paschi di Siena fu sommerso da un applauso incontenibile. Anche l’ex commissario Marco Tanzini, da poco in pensione, non poté fare a meno di battere le mani con l’entusiasmo di un bambino di fronte a quel giovanottone alto e ben piantato dallo sguardo di fuoco che faceva faville sulla scacchiera. Il suo interesse per gli scacchi era nato da poco, per un fatto terribile accaduto proprio in quella sede, ma le gesta di Eugeny Khaliuscin erano troppo eclatanti per non scuotere un tipo tranquillo come lui. Che ora, seduto in seconda fila insieme al gruppo dei notabili di Siena, poteva ammirarlo in tutta comodità, mentre Presidente del circolo, sindaco, funzionario di banca e lo staff, che si era adoperato non senza fatica per la sua presenza al primo Torneo Internazionale “Città del Palio”, si sarebbero avvicendati al microfono piazzato nel bel mezzo di un lungo tavolo ricoperto di panno verde in cima alla sala. Sì, perché riuscire ad accaparrarsi la presenza di Khaliuscin ad un torneo era un’impresa assai disperata. I Cervelloni entusiasmano, ma costano. Ed hanno le loro fisse, le loro manie. E così c’era voluto l’intervento dei pezzi grossi di un gruppo di banche capeggiate dal Monte dei Paschi e quello di un gruppo di esperti in relazioni pubbliche per convincerlo a venire, dimostrando ancora una volta che Siena era una città di illustri tradizioni, di sport e di cultura. Lo sforzo si era rivelato notevole, perché insieme a lui erano stati invitati altri giganti dello scacchismo mondiale, già disposti lungo il tavolo, a fare da corolla al nostro campione. E anche loro costavano. Un po’ meno, ma costavano. C’erano Krivillic, Galepov, Shitiov, la Grande Maestra Denver, l’indiano Anineda e tre altri ancora dal nobile pedigree scacchistico che si sarebbero dati battaglia il giorno seguente, il lunedì, dopo la presentazione proprio in quella sala. La quale sala scoppiava di appassionati e curiosi giunti da tutte le parti del mondo. Giornalisti, direttori di riviste e di pubblicazioni scacchistiche tra i quali spiccavano l’estroso Adolivio Capece, il dinamico Yuri Garret, il signorile Roberto Messa, l’amabilmente ironico Charles Azzopardi e l’irresistibile Valerio Luciani.
“Cari amici, gentile ed appassionato pubblico…” iniziò con orgoglio ed un pizzico di pomposità il Presidente della sezione scacchi “…Oggi è un giorno importante, direi una data storica per la nostra città…” Una raffica di lampi al magnesio sembrò stordirlo facendogli perdere per un attimo il filo del discorso. Meglio così. Per Marco Tanzini, abituato istintivamente all’osservazione, era meglio osservare l’eletta prole di Caissa piuttosto che ascoltare i convenevoli rituali, sia per una curiosità frutto del mestiere, sia perché voleva scoprire quali fossero le caratteristiche fisico-somatiche di tanti unti del Signore. Partì dunque da sinistra verso destra con l’idea di saltare, per il momento, l’asso russo che sedeva al centro, volendoselo godere in fondo con la calma necessaria. Qui era seduto lo svedese Larsen, un ragazzetto dai lineamenti del volto ancora adolescenziali con un incarnato così liscio e pallido da riflettere sul pubblico la luce che era proiettata verso di lui. Una presenza diafana, un alone misterioso. Poteva avere diciassette o diciotto anni, ma ne dimostrava ancora meno perché al suo fianco troneggiava il bulgaro Galepov, un omone baffuto e corpulento dall’occhio grifagno che metteva ancor più in risalto la delicatezza del giovane. Aveva una testa massiccia incassata direttamente sul petto senza l’ausilio del collo e due mani robuste da spaccatore di pietre che mai avresti pensato potessero disegnare eleganti circonvoluzioni sulla scacchiera. Andando avanti si distingueva per il suo aspetto di perfetto gentleman il francese Carvier, un signore con gli occhiali scuri dalla giacca blu di taglio impeccabile, camicia bianchissima sulla quale risaltava una cravatta di un rosso cupo particolare, contornata da piccoli simboli scacchistici dorati che sembravano essere, a quella distanza, Torri e Cavalli.
L’ex commissario pulì con delicatezza i suoi occhiali e sporse un poco la testa in avanti per meglio ammirarla, dato che aveva una certa debolezza per le cravatte. Sua madre lo aveva costretto sin da ragazzo ad indossare la giacca in qualsiasi momento ed occasione (anche nel deserto se ce ne fosse stato bisogno) insieme alla camicia, naturalmente, e lui aveva cercato un compenso, per così dire, alla sua “schiavitù” trovandolo nella scelta di questi tipici ornamenti maschili. Ne aveva circa duecento, ed alcune anche di un certo valore. Quella del signore distinto gli piacque perché si mise ad osservarla con un certo interesse, quando fu scosso da un lungo applauso. Il Presidente, felicemente irrorato dal sudore, terminò l’apologo, dette la parola al sindaco e si sedette con un sorriso che scoprì trentadue denti altrettanto felici di mettere in mostra il loro naturale candore. “Gentile pubblico, non nascondo la mia trepidazione e la mia soddisfazione, che è poi quella di tutta la città di Siena che mi onoro di rappresentare, di fronte ad un evento che il Presidente ha giustamente definito storico…”.
Un’altra pappardella. Marco Tanzini spostò lo sguardo ancora verso destra. Romina Denver, l’unica donna invitata a partecipare al torneo, occupava la poltrona seguente con delicata eleganza. Capelli biondi, volto dall’ovale regolare, occhi chiari, dolce e accattivante sorriso. Il tutto incorniciato in un vaporoso vestito azzurro-tenero. Una madonna da fare invidia a quelle dipinte dal grande Raffaello. Veniva poi il russo Krivillic, uno degli avversari più titolati per la vittoria finale, dall’aspetto bonario che si trasformava, dicevano, in un killer spietato quando si trovava davanti alla scacchiera. A suo fianco il Presidente del circolo ormai caduto in estasi mistica dopo l’ispirato intervento, poi c’era il sindaco che stava concionando, il grande Khaliuscin sul quale non volle al momento soffermarsi, quindi un distinto signore brizzolato elegantissimo che doveva essere un funzionario del Monte dei Paschi di Siena. Continuando verso destra il suo sguardo mise a fuoco l’arbitro internazionale tedesco Karl Lutz calvo come una palla da biliardo e dal contegno irreprensibilmente statuario, poi l’inglese Shitiov, un biondino lentigginoso con gli occhiali. Sembrava il fratello maggiore di Harry Potter e aveva stampato sul volto una smorfia indecifrabile. L’indiano Anineda terminava la corolla dei campioni. Poteva ben costituire il rappresentante della bellezza tipica del suo paese. Alto, aitante, in perfetta forma fisica, lineamenti regolari come se fossero stati disegnati, pelle brunita che risaltava su una camicia giallo senape. Solo la cravatta, di un arancione un po’ troppo vistoso, causò una fitta allo stomaco e una smorfia di disapprovazione sulle labbra di Marco Tanzini. Il quale, dopo avere fatto il “giro” che si era proposto, senza aver notato nulla di particolare che potesse essergli di aiuto nell’individuare le caratteristiche somatiche di un genio degli scacchi, ritornò ad osservare il grande Eugeny Khaliuscin.
E qui si trovò di fronte a qualcosa di diverso. E anche di inaspettato. Nulla di preciso, a dire la verità, ma per lui abbastanza eloquente. Era, per esempio, meno bello dell’indiano Anineda, eppure il suo portamento, il suo modo di guardare, di muovere la testa, di incrociare le braccia avevano il tocco del carisma. Un po’ come era successo ai grandi condottieri che avevano percorso la Storia e attirato moltitudini di giovani pronti a sacrificare la vita per la loro gloria. Molto spesso non erano belli, né alti, né abbronzati. Eppure esercitavano un fascino incredibile sugli altri. Un mistero, che neanche il più ingegnoso dei detective avrebbe potuto risolvere. Khaliuscin attirava fortemente, prepotentemente. Questo, Marco Tanzini lo percepiva, lo sentiva. Era come se fosse seduto su uno scranno più alto, distaccato dai comuni mortali. Però…però…c’era qualcosa di strano che trapelava dalla sua persona che non sfuggì all’occhio acuto del nostro osservatore. Aveva un tic lieve, quasi impercettibile sulla parte sinistra delle labbra, un movimento repentino verso l’alto e uno stringere ritmico delle lunghe dita che denotavano un certo nervosismo. Quando si alzò a parlare, dopo l’intervento del funzionario di banca, ringraziando le autorità e il pubblico presente, l’ex commissario ebbe come un rafforzamento alle sue impressioni. La voce forte e sicura confermò il suo carisma, ma il ritmo affrettato delle parole e lo sguardo che vagava per la sala come in cerca di qualcuno gli fece intendere che Khaliuscin non era tranquillo. […]
(L’immagine del post è tratta dal blog di Susan Polgar).