Presento ai lettori del blog intorno all’angolo l’inizio del mio gialletto Partita a scacchi con il morto, Prisma 2004, ricordando che la seconda parte relativa a Meraviglie sulla scacchiera è stata scritta magistralmente dal Maestro Mario Leoncini.
Il commissario Marco Tanzini
La passione per i gialli era nata, si può dire, sin dalla sua infanzia. Gli aspetti meno gradevoli dell’uomo lo avevano sempre colpito. Soprattutto il lato più buio e misterioso del Male che si nasconde in ognuno di noi. Ed ora se ne stava in piedi con le braccia incrociate ad ammirare, soddisfatto, la sua collezione di gialli che troneggiava nel bel mezzo della biblioteca. C’era in prima fila Agatha Christie con i personaggi più famosi: Poirot e Miss Marple. Era stato il suo primo amore, se lo ricordava bene (anzi no, c’era stato in precedenza una “cotta” per Perry Mason ed un’altra per Sherlock Holmes che però non erano risultate così significative. Uno dei suoi primi divertimenti consisteva nell’immaginare la faccia sbigottita del dott. Watson di fronte alle deduzioni di Holmes) soprattutto dopo avere visto la trasposizione in alcuni film delle gesta della terribile vecchietta impersonata magistralmente dalla Rutherford. Poirot all’inizio gli stava antipatico. Tutto impomatato e ingessato, sempre intento a curare e lisciarsi quei suoi ridicoli baffetti arricciati, e poi quei modi affettati da dandy che urtavano la sua semplice naturalezza, via! In seguito, però l’omino dalle effervescenti cellule grigie lo aveva conquistato e tutte le sue manie glielo avevano reso buffo, se non addirittura simpatico. Anche con quella presunzione di essere il più bravo di tutti. Merito dell’attore David Suchet che sullo schermo si muoveva a piccoli passi che tiravano al sorriso. La stessa cosa era successa per Nero Wolfe, il quale non usciva mai di casa per risolvere i delitti, ma da quando lo aveva visto nei panni di Tino Buazzelli alla televisione, era diventato uno dei suoi detective preferiti. Grande e grosso come un elefante ma dal cervello finissimo, aveva un rapporto nevrotico con le orchidee e non lo avresti tirato giù dalla tavola nemmeno se fossero cadute le torri gemelle. La televisione talvolta lo aveva convinto più della stessa lettura, e si ricordava con soddisfazione come avesse imparato a conoscere meglio le peripezie di padre Brown dalla serie televisiva recitata da quello spiritello di Renato Rascel il quale, essendo un comico di razza, dava alle sue avventure il giusto pizzico di sano umorismo che era proprio dell’autore Chesterson. E come quello spilungone di…, anche se in quel momento non si ricordava il nome dell’attore, avesse concretizzato in maniera perfetta l’idea che si era fatta di Ellery Queen. Maigret se l’era goduto due volte, attraverso i libri di Simenon e in seguito con la stupenda interpretazione di Gino Cervi, che aveva saputo dare al personaggio quella giusta dose di fermezza e bonomia tipica del commissario transalpino. Ma tutto ha un limite, e andando avanti la televisione l’aveva fatta da padrone, ed erano venuti fuori Derrik, Colombo e la Signora in giallo (sui quali, tuttavia, non aveva molto da eccepire) e tanti altri anonimi ispettori e ispettrici da non poterne più. Salvava Montalbano perché se lo sentiva vicino, con la sua aria da scanzonato picciotto e poi perché il siciliano usato da Camilleri era divertente. Aveva proprio una bella collezione di segugi di tutte le razze e di tutti i tempi. Bastava seguire le orme di frate Cadfield, o di Dante (sì, proprio l’autore della “Divina Commedia”) per ritrovarsi in pieno medioevo anche se in due realtà diverse, o quelle di Aristotele per passare di botto ai tempi della civiltà greca. E c’era chi aveva ambientato storie nefaste nell’antica Roma e nell’antico Egitto. Non mancavano i gialli della scuola americana con in testa Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Che gli interessavano, ma fino ad un certo punto, perché le scazzottate, gli inseguimenti, le macchine ribaltate, le sparatorie anche all’ora di pranzo e di cena gli buttavano all’aria l’appetito. Per ultimi erano arrivati gli italiani che non avevano una tradizione eccelsa in questo campo. Però si erano fatti largo a spallate ed ora se la battevano ad armi pari con gli autori stranieri, cosicché Renato Olivieri, Loriano Macchiavelli, Carlo Lucarelli, Santo Piazzese ed altri ancora se ne stavano in bella mostra, seppure un po’ in disparte, sugli scaffali insieme agli alti papaveri della letteratura poliziesca mondiale senza arrossire troppo di vergogna. Ultimamente c’era stato il boom del giallo da tutte le parti ed erano nati commissari gay e ispettrici lesbiche tanto da far capire che si stava raschiando il fondo del barile e gli autori, in gran numero del gentil sesso, non sapevano più cosa proporre. Eh sì, era proprio soddisfatto della sua biblioteca, il commissario di polizia criminale Marco Tanzini di Siena. E sarebbe stato ancor più soddisfatto se fosse capitato anche a lui qualche caso particolare, qualche matassa difficile da sbrogliare in modo da confrontarsi con i suoi eroi libreschi. Invece nulla. Furti, rapine, case-squillo, giretti di droga, scazzottate in discoteca. Mai che gli fosse toccato un cadavere bello caldo di dubbia dipartita. Meno soddisfatto del tempo che aveva preso l’aspetto nevrotico della sua insegnante di matematica al ginnasio. Era una maledetta giornata torrida e afosa. Come non se ne erano mai viste nel mese di giugno. Ma tutto stava cambiando nel nostro paese, dal governo al modo di pensare e di agire. Così gli sembrava, e gli elementi naturali si adeguavano imitando alla perfezione le caratteristiche tormentose di quelli tropicali. Prima o poi ci sarebbero state anche qui da noi due sole stagioni: quella arida e quella della pioggia. Cavoli amari per tutti. Soprattutto per lui, che non sopportava il caldo e non gli erano bastati cinque fazzoletti a tenere asciutta la testa pelata. Preso da tali considerazioni si accorse del telefono in subbuglio solo al quinto trillo. Si avviò a rispondere mugugnando tra i denti qualcosa di poco simpatico nei confronti dell’incauto scocciatore.
“Pronto? Commissario…”
“Che c’è, benedetto Pasquini! Cosa c’è di così maledettamente urgente da rovinarmi la giornata. Che già di per se stessa mi sta angustiando non poco!” rispose di botto avendo riconosciuto la voce lagnosa del suo sottoposto.
“C’è che… è successo un fatto grave… un fatto molto grave…”
“Certo, se ti permetti di scocciarmi a quest’ora, a casa mia il giorno prima che me ne vada in vacanza, deve essere per forza grave. Anzi gravissimo Pasquini, di una gravità inaudita, incommensurabile, mi capisci? Non blaterare, fai alla svelta e tira fuori il rospo senza perdere tempo. Allora cosa c’è?”
“C’è un morto.
“Un morto?”
“Sì, un morto.”
“Dove?”
“Al CRAL del Monte dei Paschi della nostra città, più precisamente in via dei Termini 31. Dove si riuniscono, tra gli altri, i giocatori di scacchi. A un passo dalla sua abitazione.”
“A un passo o due dal mio appartamento questo non c’entra nulla. Se è morto, Pasquì, voglio dire morto di morte naturale, che cavolo c’entriamo noi?”
“Vede, commissario, la dipartita non sembra del tutto normale. Insomma c’è bisogno del nostro intervento.”
“Porc…”
E qui l’imprecazione gli si strozzò nella gola come quando da bambino si ingozzava di paste fino all’orlo della bocca e non riusciva più a spiccicar parola. Un morto lo aveva desiderato, sì, ma all’inizio della carriera, non certo in quel momento. Erano le diciassette del 27 giugno 2003. Uno stramaledetto venerdì in cui non doveva essere ancora al lavoro per terminare una stramaledetta pratica, ma in viaggio verso il mare di Sicilia per uno stramaledetto, meritato riposo. Se si considera che si era lasciata sfuggire la possibilità di andare in pensione, per dare retta al suo superiore, che gli aveva consigliato di non perdere l’ultimo scatto di anzianità, si può immaginare come fosse cambiato il suo umore. Che in un batter d’occhio da roseo davanti alla biblioteca era diventato nero di fronte al telefono. Come nemmeno un camaleonte.
Fabio Lotti
Partita a scacchi con il morto
Prisma edizioni, 2004