Intervista di Roberto Mistretta
Mi preoccupo sempre quando leggo dei gialli in cui le vittime sono scrittori o, come in Linea retta (Giallo Mondadori, 2021), il ricco Roberto Salazar, titolare di un’agenzia letteraria tra le più potenti in Italia, da lui costruita con cinismo e spietatezza. Mi preoccupo perché so già che non smetterò di girare le pagine finché il sipario non calerà sui diversi delitti e si disveleranno le vere personalità dei personaggi che ruotano attorno a quell’oggetto sacro che è il libro.
Enrico Luceri, già Premio Tedeschi Giallo Mondadori nel 2008 con Il mio volto è uno specchio, laureato in Ingegneria, è autore di romanzi, racconti e sceneggiature cinematografiche, e di un saggio sulla storia del cinema giallo, presentato sulla rivista Sherlock Magazine. Molte sue opere di narrativa e saggistica, pubblicate anche con il nickname Enricoelle, sono presenti su vari siti.
Come autore di gialli, predilige creare situazioni complesse di impronta classica, all’Agatha Christie, in cui il delitto rappresenta la conclusione di un dramma interiore avvolto nelle pieghe della coscienza e della memoria.
Tra le altre sue opere pubblicate nella storica collana del Giallo Mondadori ricordiamo Buio come una cantina chiusa (2013) , Le colpe dei figli (2015), L’ora più buia della notte (2017), Le notti della luna rossa (2019), e i racconti Donne al buio nell’antologia Delitti in giallo, Il miglior perdono è la vendetta (I Classici del Giallo n. 1329), Il giorno non deve sapere nell’antologia Assassinii sull’Orient-Express, che raggruppa dieci autori vincitori del Premio Tedeschi che fanno agire i loro investigatori sul treno del mito.
E ancora: Dietro questo sipario (Damster, 2017), Tre indizi fanno una prova (Mauro Pagliai editore, 2018), Lo sguardo dell’abisso (edizioni Drawup, 2019), Chi ha spento la luce (con Sabina Marchesi, Bertoni editore, 2019), Il vizio del diavolo (Oltre Edizioni, 2020).
Un autore, insomma, il cui curriculum parla da solo.
Conosciamolo meglio.
RM – Il suo esordio avviene nel 2008, quando col romanzo inedito, Il mio volto è uno specchio, viene incoronato vincitore del Premio Tedeschi Giallo Mondadori, il più prestigioso riconoscimento in Italia per chi scrive polizieschi. Cosa significa per un autore alle prime armi un esordio così blasonato?
EL – In realtà, nel 2008 avevo già alle spalle una decina d’anni di gavetta, diciamo meglio di apprendistato in quella che potrei chiamare la “bottega” (nel senso nobile del termine) della narrativa di genere. Un decennio in cui ho messo alla prova le mie ispirazioni, la fantasia, le storie che creavo nella mia mente. Quando il mai troppo rimpianto Sergio “Alan” Altieri, all’epoca responsabile delle collane d’edicola della Mondadori, mi telefonò per annunciarmi che il mio romanzo aveva vinto il Premio Tedeschi, mi sentii come Alice quando attraversa lo specchio ed evade, irrompe, si aggira nel mondo più bello della sua immaginazione. L’ho interpretato come un risarcimento per i sacrifici, l’impegno, la passione, la modestia e la riservatezza con cui ho praticato sempre la narrativa.
RM – La sua scrittura, impeccabile, costruisce di volta in volta dei gialli di impianto classico che si leggono d’un fiato e le cui vicende temporali che si svolgono in pochi giorni, ruotano attorno a un pugno di personaggi ben calibrati e disegnati, ma dica la verità: quanto si diverte lei come autore a sfidare i lettori nella risoluzione del caso?
EL – Mi piace moltissimo e mi considero fortunato, ma fino a un certo punto. Leggo Gialli (non a caso scritto con la maiuscola, per individuare un genere, senza alcuna imperdonabile pretesa di presunzione), fin dal remoto 1970. Quando cominciai a sfogliare il mio primo Giallo Mondadori, che forse per ironia del destino non era un giallo classico ma un “hardboiled” del grande James Hadley Chase, dal titolo La morte fa l’autostop. Dopo oltre cinquant’anni, credo di aver compreso le evoluzioni del genere e ciò che i lettori amano leggere. Io stesso sono prima di tutto un lettore di Giallo. E scrivo Gialli che potrebbero, spero, piacere ai lettori come me. L’enigma è un aspetto della trama, come la curiosità di scoprire la soluzione del mistero e l’identità dell’assassino. Poi c’è il coinvolgimento dei lettori, riuscire a condividere con loro le emozioni dei personaggi. Rinnovare ogni volta la magia, l’incanto, se vogliamo, di ammettere che la realtà di un giallo è quella riflessa in uno specchio. Uguale e al tempo stesso contraria all’originale.
RM – Lei non ha mai fatto mistero di ispirarsi ad amici e conoscenti per cucire loro addosso caratteristiche e personalità dei suoi personaggi. È mai capitato che qualcuno, riconoscendosi, si sia risentito? E nel caso come si vendicherà nei successivi romanzi?
EL – No, mai. Cercherò di spiegarmi. Quando scrivo una storia, la vedo con gli occhi dell’immaginazione. Si svolge davanti a me. E io trascrivo, letteralmente, ciò che vedo. Al tempo presente. Quando scrivo il romanzo, uso invece il passato. Se vedo una situazione, devo dare un volto, una figura, ai personaggi, Quindi chiamo persone di mia conoscenza, anche se remota, e personaggi pubblici anche, a “interpretare” chi agisce nelle mie storie. Ma devono passare un esigente “casting”! Non posso permettermi il lusso di mettere in scena persone sgradevoli che ho conosciuto nella mia vita (molte, non troppe), se non si adattano alla storia. Comunque, nessuno si è mai riconosciuto in pubblico, o riservatamente con me, come ispirazione per un personaggio di un romanzo. Si vergognavano o erano incapaci, nella loro presunzione, di riconoscersi in vittime che meritavano di esserlo? Chissà!
RM – In Linea retta tornano per la terza volta i personaggi napoletani che abbiamo conosciuto la prima volta nel 2015 con le Colpe dei figli: il commissario Tonio Buonocore, l’ispettore capo Lina Garzya, il sovrintendente Michele Macchia e il sostituto Pierannunzi. Ha dato vita una nuova serie? Ci sono altri romanzi già in embrione con questi protagonisti?
EL – Certamente, il commissario Tonio Buonocore e i suoi collaboratori torneranno a indagare su un nuovo mistero nel romanzo Il giorno muore lentamente, che sarà pubblicato ad agosto 2022 sempre nella storica e amatissima collana Il Giallo Mondadori.
RM – In Linea retta, c’è una frase che, per chi ama leggere e scrivere, colpisce più di altre: “Non c’è nessun amico più leale di un libro.” Quanto c’è di lei in quest’affermazione?
EL – Molto, non tutto. Amo i libri, e le storie che raccontano, siano narrativa o saggistica. Li amo comunque, anche quando sono storie distinte e distanti dai miei gusti, se intuisco o comprendo che sono state scritte con passione e competenza. E mi sento in pace con la mia coscienza, per quella che considero una onesta condivisione di un’emozione. Poi penso a coloro che invece amano solo ciò che apprezzano, che sentono vicino. O le opere dei loro amici. In silenzio, mi sento più sereno. Detesto la faziosità. Amo i libri, e anche gli animali. Come i gatti che convivono in casa con me. Amo gli animali perché ignorano la malizia, la partigianeria, l’invadenza, l’esibizionismo, la vanità, l’arroganza, la triste incapacità di comprendere come certi comportamenti rendano grotteschi. Amo, gli animali e penso che a volte siano meglio degli esseri umani. Purtroppo, aggiungo.
RM – Come s’è ritrovato a fare interpretare a uno dei personaggi se stesso? S’è guardato semplicemente allo specchio o s’è anche guardato dentro?
EL – A volte, anzi spesso, “interpreto” personaggi dei miei romanzi. Prendo questa decisione per un motivo chiaro e pratico: li conosco bene, comprendo le loro emozioni, so come siano complessi e semplici al tempo stesso, e soprattutto li ho creati io, quindi che è indispensabile interpretarli di persona perché siano efficaci.
RM – Pur senza risultare pedanti, in Linea retta sono presenti diverse citazioni di autori, di romanzi, di film. Quanto è importante per un autore la formazione e il rimanere fedele a se stesso nella narrazione?
EL – Ho oltre sessant’anni, e migliaia di libri letti e film, sceneggiati visti. E saggi o articoli letti. E vite vissute, da testimone, o protagonista. La narrazione, anche altrui, è un’esigenza per me. È una porta sulla realtà parallela, è un grimaldello per evadere dalla prigione della vita quotidiana, è una via di salvezza dalla rassegnazione al destino. Permette di entrare in un universo parallelo dove, semplicemente, accade ciò che vogliamo. Non ciò che dobbiamo subire.
RM – Tra le altre citazioni compare più volte il riferimento al notissimo racconto La lettera rubata di Poe, ovvero che il miglior nascondiglio non va cercato nei luoghi normalmente deputati a tale funzione, ma si trova mimetizzato proprio sotto gli occhi, in un luogo visibile a tutti. Un doveroso omaggio all’arte affabulatoria di Agatha Christie ed Edgar Allan Poe?
EL – Amo questi due autori, moltissimo. Ho scritto “autori”. Dunque per le loro opere. Per le storie che hanno scritto. Sì, è vero. Però, la verità è un’altra. Li amo perché intuisco in loro, in un uomo vissuto nel XIX secolo e in una donna del ‘900, un’emozione che ci unisce: aver conosciuto il dolore. Si scrive di ciò che si conosce, sostiene qualcuno. Edgar Allan Poe e Agatha Christie hanno subito quella “cruda afflizione bravamente sopportata” (cit. Un delitto avrà luogo, di Agatha Christie) che si chiama privazione di un amore. Che dovrebbe esserci dovuto, quell’amore (potremmo anche chiamarlo affetto o gratitudine), e invece è negato, però diventa forza per affrontare il presente e il futuro.
RM – Come pianifica la costruzione delle sue trame? Lei è noto per essere un perfezionista, che scaletta in ogni dettaglio una singola scena.
EL – Esamino e scelgo ogni elemento della storia: ambientazione, epoca, personaggi, suspense, trama, colpi di scena, ritmo, atmosfera. Sono come le ruote dentate di un orologio a carica. Ognuna deve funzionare da sé, e poi insieme alle altre, per garantire il funzionamento del meccanismo narrativo. Oppure sono come gli strumenti di un’orchestra, il loro suono deve essere piacevole se eseguito da solo, e allo stesso tempo con il medesimo valore se fuso nell’armonia corale, dove mantiene le sue caratteristiche singolari e contribuisce all’insieme. Scrivo quindi una trama molto articolata, già divisa in capitoli secondo una scaletta, o una storyboard cinematografica, se preferite. Se un editore mi propone una pubblicazione, gli invio la storyboard e se gli piace, nasce una nuova pubblicazione.
RM – A uno scrittore alle prime armi che volesse misurarsi con questo genere, quali consigli si sente di dare?
EL – Anni fa. Molti anni fa, un caro collega giudicò un mio romanzo “troppo giallo”. Per lui era un limite, una considerazione rispettabile. Per me, era un merito. Un altro collega mi consigliò di seguire i suggerimenti del primo. Ovviamente, me ne guardai bene! Quel romanzo, al quale non cambiai neanche una virgola, vinse il premio Tedeschi. Dunque, il mio non è un consiglio ma solo una modesta esperienza di vita: ascoltare tutti, riflettere sempre sui consigli, decidere da sé.
RM – In ultimo, come preferisce salutare i nostri lettori?
EL – A volte penso che non sia io a decidere le storie che scrivo, ma loro a scegliere me per essere raccontate. Per svegliare la paura che dorme un sonno leggero, per coinvolgere i lettori in un’altra emozione rubata. Per sorprendere il buio. Quello delle nostre coscienze, di autori e lettori.