I Visconti. Il potere feroce – Daniela Pizzagalli

Daniela Pizzagalli
I Visconti. Il potere feroce
Rizzoli, 2021
Recensione di Patrizia Debicke

Un nuovo crudele ed esaltante capitolo della saga delle Vipere di Daniela Pizzagalli. Il secondo per la precisione, dopo Le battaglie della Vipera, a testimonianza della famiglia che nella memoria cittadina, con il suo minaccioso stemma gentilizio con una vipera che ingoia un ragazzo, ancora oggi forse meglio rammenta l’antica potenza milanese.
L’insegna viscontea, Il Biscione, definita da Dante Alighieri “la vipera che il milanese accampa”, trova agganci remoti in imprese guerresche compiute dai Visconti in Terra Santa. Si narra che l’arcivescovo Ottone Visconti avrebbe scelto lo stemma rifacendosi alla scultura bronzea originaria di Costantinopoli della Basilica di Sant’Ambrogio, oppure strappandolo a un infedele che aveva ucciso in duello durante le Crociate. Altri riportano invece che l’emblema sia stato adottato dopo che Uberto Visconti avrebbe ucciso Tarantasio, il drago che con l’alito infuocato terrorizzava gli abitanti di Grazzano Visconti…
Comunque è certo che, a partire dai primi anni del 1200, la vipera, il serpente o meglio il biscione divenne sia il simbolo della famiglia che quello della città e lo è tutt’oggi, a imperitura memoria.

1354, 11 ottobre: tutta Milano è assiepata nella piazza delle cattedrali per la proclamazione dei nuovi signori. Il 5 è morto l’arcivescovo Giovanni Visconti, che con la conquista di Genova e Bologna ha ampliato al di là di ogni limite immaginabile il potere della dinastia, rendendo lo stato milanese il più vasto e importante della penisola. Ha nominato eredi i tre nipoti: Matteo II, Bernabò e Galeazzo, figli del fratello Stefano. Una scelta difficile, sofferta e che andava contro la linea di suo padre, Matteo il Grande, di preferire un unico erede, ma probabilmente obbligata. La linea paterna aveva garantito a caro prezzo con il rapido ricambio dei signori la governabilità di Milano. Dopo il primogenito Azzone, poi morto senza figli, erano subentrati alla pari, ma con diversi compiti, Luchino e Giovanni. E Luchino aveva condannato all’esilio i nipoti che riteneva coinvolti in una congiura contro di lui. Solo alla sua morte (di peste?) nel gennaio del 1349, il fratello arcivescovo Giovanni aveva fatto tornare a corte i nipoti, concedendo loro onori e matrimoni prestigiosi e associandoli nelle cose dello stato e di guerra. Il suo intento probabilmente era di valutarli prima di decidere i termini del suo testamento, ma un’improvvisa malattia l’aveva costretto a stilarlo, eliminando sbrigativamente dalla successione Luchino Novello di sette anni, figlio del fratello Luchino e di Isabella Fieschi.
Alla cerimonia di proclamazione segue l’intronizzazione, orchestrata da Francesco Petrarca nel ruolo di oratore ufficiale. Proprio il Petrarca, il famoso poeta trasformato dall’arcivescovo Giovanni nel faro della cultura milanese e che tanto ruolo avrà in veste di poeta letterato e ambasciatore anche nel futuro visconteo.
Avvalendosi della complicità del notaio novarese Azario, uomo di penna che al servizio dei Visconti si era dovuto impratichire anche alla guerra, Daniela Pizzagalli fa salire in scena uno dopo l’altro i tanti personaggi che nella seconda metà del Trecento affolleranno questo nuovo capitolo della saga viscontea. I tre eredi – il maggiore Matteo II, quello che fisicamente ricorda di più suo nonno ma devastato dagli stravizi, Galeazzo, biondo erede della leggendaria bellezza familiare, sposato con Bianca di Savoia, e il bruno Bernabò, il minore, scuro di occhi e capelli come sua madre, la genovese Valentina Doria, sposato con la bella e fiera Regina della Scala – si dividono lo Stato.
Dopo meno di un anno di “governo a tre”, saremo testimoni della scomparsa di Matteo, che secondo i fratelli metteva a rischio l’assetto familiare del potere. (A detta della loro stessa madre forse addirittura avvelenato). Non avendo avuto Matteo eredi maschi da Egidiola Gonzaga, Galeazzo e Bernabò si spartiscono equamente la sua eredità.
Da quel momento il patrocinio di famiglia è saldamente in mano a una diarchia già collaudata da anni di condivisione di fughe, di timori, di esilio e che sta imparando in fretta a giostrare con il potere. Due fratelli diversi tra loro ma complementari e comunque uniti da uno stesso fine di governo.
Bernabò crudele, rapace, senza freni e assolutamente incontrollabile nei suoi momenti d’ira ma qualche volta generosissimo, un grande filantropo se gli girava l’uzzolo; Galeazzo diverso, accorto, pronto, attento, colpisce duro, sempre poi pronto a chiudersi in difesa senza offrire spazio al nemico. I due fratelli, sempre o quasi di comune accordo, si batterono senza requie, eliminando brutalmente ogni ostacolo che si frapponesse sul loro cammino. Insieme estesero e consolidarono i domini della famiglia, tracciando il cammino per il grande “Stato Visconteo” che sarebbe stato definitivamente forgiato dal loro figlio, genero e nipote, Gian Galeazzo Visconti. Gian Galeazzo, l’abile giocatore, il maestro degli inganni che prese il potere dopo aver teso un agguato, fatto imprigionare e in seguito eliminare con il veleno lo zio Bernabò .
Il potere feroce arriva proprio fino al 1385, alla morte di Bernabò; ritrae senza fare sconti tanti personaggi ambigui, spregiudicati, ambivalenti e altri dal fascino perverso, quasi incomprensibile. E altri ancora che per l’orrore delle loro gesta siamo costretti a definire addirittura mostruosi. I tempi erano quelli e spesso le regole atroci. A voi giudicare spassionatamente.
Il potere feroce è un saggio biografico, con una colta e corposa base storica ma arricchito da una componente romanzata.
Dal 1354 al 1385, trentun anni appena, furono anni che videro l’imperatore Carlo IV, nipote del dantesco Arrigo, andare e venire per la penisola dispensando favori e titoli e incassando pingui prebende. E arrivava da lontano, da Praga, per farsi incoronare a Milano come re, e poi addirittura a Roma come imperatore.
Anni che videro solo per accorata intercessione femminile (Santa Birgitta prima, e poi Santa Caterina da Siena) il ritorno definitivo del papato a Roma da Avignone, ma in una Roma spogliata, impoverita, da ricostruire. E in una penisola che ciascuno voleva fare sua preda, mentre con uno schiocco di dita continuava l’eterno balletto delle menzogne.
Anni violenti, devastati da guerre persino tra papi e i loro sostenitori, e pandemie, la peste dilaga e si ripresenta anno dopo anno reclamando le sue prede. Anni in balia di fazioni in lotta per il potere e di spietati condottieri mercenari inglesi e tedeschi che si battono con inaudita ferocia e si contendono l’Italia palmo a palmo, tra sanguinose battaglie e spietati intrighi. Trent’anni che videro alleanze durare lo spazio di un attimo, prima di essere rinnegate da un successivo tradimento. Trent’anni in cui i Visconti si dimostrarono la famiglia che meglio di altre riuscì a farsi largo e imporsi nella spietata e disumana lotta per la supremazia avallata dalla perversa anima nera delle signorie italiane del ‘300, e costituire il più potente Stato dell’Italia di allora. E in più fiumi di denaro e accorte alleanze matrimoniali furono in grado di inserirli a pieno titolo e quasi con il rango di monarchi nelle grandi vicende europee.

Daniela Pizzagalli, psicologa e giornalista, oggi una delle più affermate autrici di biografie al femminile, svolge attività di critica letteraria e storica su quotidiani e periodici. Ha inoltre una lunga esperienza di giornalismo radiofonico, avendo condotto per più di dieci anni una rubrica culturale presso la radio diocesana milanese. Come scrittrice si è dedicata sempre alla storia lombarda, con una predilezione per il racconto biografico dei grandi protagonisti del medioevo e del Rinascimento. Fra le sue opere ricordiamo: Tra due dinastie (Milano, 1988), con il quale è arrivata finalista al premio “Donna Città di Roma opera prima”, La Signora di Milano su Bianca Maria Visconti. Sempre presso Rizzoli ha pubblicato, tra gli altri, La dama con l’ermellino (1999) e La signora del RInascimento.

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