La Debicke e… Io sono il castigo

Giancarlo De Cataldo
Io sono il castigo
Einaudi, 2020

Il Pubblico Ministero Manrico Spinori, detto a casa e di nascosto in procura il “Contino”, per gli amici Rick, è un gentiluomo di razza, afflitto da nomi e titoli: grande famiglia, sequela di antenati che, come sempre, hanno accumulato terre e denari rubando e facendo fuori nemici e rivali a man bassa. Queste, signori miei non mi raccontino balle, sono sempre state le regole in passato, anzi il dogma che, badate bene, conta allo stesso modo anche oggi. Cambiano le armi, al posto dell’acciaio armi diverse, anche i veleni sono diversi, ma non la sostanza.
Dunque, dicevamo: Manrico Spinori (nome completo Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda), erede di un nome ma non di una fortuna, visto che l’incontrollabile degenerazione della ludopatia di sua madre, la contessa Elena, ha irrimediabilmente sbriciolato il cospicuo patrimonio paterno. Insomma la sua famiglia ha perso tutto. Compreso palazzo Wan Winkel, la splendida dimora dei suoi avi, nel quale tuttavia il fondo che ne è divenuto proprietario gli consente di continuare ad abitare con la madre, (sotto controllo) amorevolmente accudito da Camillo, da sempre “valletto” di casa. Uomo educato, flemmatico ma fermo, la cinquantina passata, gli piacciono le donne (anche per questo è separato da Adelaide, una bella manager finanziaria di alto livello), ha un figlio Alex aspirante musicista, Manrico Spinori, a detta di superiori e colleghi, è decisamente molto bravo sul lavoro. Poi ha una passione: fin da bambino è uno sfegatato melomane operistico. Si trova proprio al teatro Costanzi durante la prima romana della Tosca di Puccini, ad assistere alla nuova rappresentazione pomeridiana dell’opera, alla fine del secondo atto, con la bella cantante romana che sferra a Scarpia la mortale coltellata, quando il vibrare del cellulare lo costringe a raggiungere un ben diverso teatro di sangue. Un teatro mortale per un incidente lungo via delle Fornaci, che dal Gianicolo scende verso San Pietro. La vittima: maschio, bianco, capelli grigi fermati da un codino, età sui settanta, probabilmente qualcosa di più, abbigliamento stravagante, un completo da scena… Un artista? Non era lui al volante, ma l’autista che si è salvato ed è già stato portato in ospedale. Dai primi riscontri appare evidente che il guidatore ha perso il controllo della macchina, una lussuosa e costosa berlina d’epoca, la Iso Rivolta Fidia dei primi anni ’70, e ben presto verrà fuori che qualcuno l’ha sabotata tagliando il tubo che porta il liquido ai freni. Niente incidente quindi, ma omicidio. Il defunto, l’uomo assassinato, è tale Stefano Diotallevi, in arte Mario Brans o Ciuffo d’oro, cantante decaduto ma riciclatosi alla fine della carriera canora, astutamente e facendo palate di soldi, come potente manager discografico, ospite fisso di alcune catene televisive private. Chi aveva interesse o poteva volere la sua morte?
Manrico Spinori si mette subito al lavoro appoggiato da una squadra investigativa tutta femminile, dove spicca una new-entry in sostituzione del fedele maresciallo Scognamiglio, che lo ha assistito per più di vent’anni: l’ispettrice Deborah Cianchetti. Trentenne, capello scuro tagliato a caschetto, bella da schianto ma sbirresca da morire e dichiaratamente “coatta”, un metro e ottanta di altezza con bicipiti decorati da tatuaggi etnici, che tira di boxe ed è medaglia d’argento agli ultimi campionati interforze di tiro con la pistola libera e, ignorando il freddo, va in giro con il chiodo di pelle nera su maglietta bianca e jeans strettissimi. Se all’inizio Spinori stenta ad adattarsi alla nuova venuta, anche la Cianchetti, spinosa, impulsiva e irruenta, è diffidente: stenta a conciliarsi con quel PM sempre calmo, prudente, dai modi gentili e altolocati, e teme che lui la sottovaluti. Un’indagine parecchio ingarbugliata, farcita di comparse del giro della vittima quali figli, mogli (l’ultima è un’albanese sbarcata a Bari con la «Vlora» nel 1991) e giovani verbose amanti assatanate che si fiondano in dirette televisive d’inchiesta. Non basta, perché poi ci sono i vecchi “compagni di merende” di Brans-Ciuffo d’oro. Presto la reale natura della vittima finisce per venire a galla, e ha ben poco ha a che spartire con l’immagine pubblica che Ciuffo d’oro si era costruito. Brans aveva le mani in pasta in tanta roba e tirava allegramente di cocaina e peggio, pur devolvendo ingenti cifre a una comunità di recupero di tossici. Insomma alla vittima i nemici non mancavano e per il movente c’è solo da scegliere.
Spinori sa che bisogna muoversi con calma, tra rischi di cantonate e false piste. Pur subendo l’assalto alla procura scatenato dai media, affamati peggio di avvoltoi e capitanati da una pasionaria della Tv urlata «d’inchiesta», e la spinta a una rapida chiusura delle indagini, sollecitata dallo stesso vecchio amico Procuratore capo, Spinori tiene botta e fa bene di testa sua. Si confronta con i problemi personali, come bloccare la madre che cerca di giocare online e il figlio entusiasta di aver «scoperto» Frank Zappa, e riesce a trovare un modus operandi anche con la Cianchetti, che vorrebbe mettere tutti al gabbio e menar le mani di continuo, pur senza ignorare l’irresistibile attrazione per Giulia, bella e fascinosa melomane, conosciuta per caso al Costanzi. Potrebbe diventare un amore?
Veleggiando tra spinte passionali degli indagati e morbose rivelazioni sulla vittima, Spinori non deroga al suo credo: «Non esiste esperienza umana – delitto incluso – che non sia già stata raccontata da un’opera lirica. Basta trovarla». Verissimo, e la soluzione gli verrà suggerita proprio da un’opera (non vi dico quale), quando tutti sono convinti di aver incastrato il colpevole, un colpevole ideale: l’orrido trapper «Morte a Credito», che ha persino minacciato pubblicamente Ciuffo d’oro.
E così tutto pronto e scodellato. Media, superiori, colleghi e squadra di polizia tutti contenti? Naaa… troppo facile, troppo scontato.

Con Io sono il castigo Giancarlo De Cataldo porta in scena il suo primo personaggio seriale, Manrico Spinori, in un primo, intelligente e gustosissimo episodio. Affascinante e bon viveur, il “Contino”, il nostro magistrato disponibile, riflessivo, ironico, che sa apprezzare un buon whisky torbato, potrebbe sembrare un uomo d’altri tempi, ma è uno che s’impegna sempre fino all’osso, ci mette la faccia, segue le indagini in prima persona senza interferire ma non demorde mai. Perché Manrico Spinori non accetta il ma e il forse: per lui vale sempre l’opzione «meglio cento delinquenti in libertà che un innocente in galera». Scelta che qualche volta gli insinua persino il tarlo di aver sbagliato mestiere. Ma… a conti fatti no!

Giancarlo De Cataldo è nato a Taranto e vive a Roma. Per Einaudi Stile libero ha pubblicato Teneri assassini (2000); Romanzo criminale (2002 e 2013); Nero come il cuore (2006, il suo romanzo di esordio); Nelle mani giuste (2007); Onora il padre. Quarto comandamento (2008); Il padre e lo straniero (2010); con Mimmo Rafele, La forma della paura (2009); Trilogia criminale (2009); I Traditori (2010); con Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli, Giudici (2011); Io sono il Libanese (2012 e 2013); con Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio, Cocaina (2013); Giochi criminali (2014, con Maurizio de Giovanni, Diego De Silva e Carlo Lucarelli); Nell’ombra e nella luce (2014); con Carlo Bonini, Suburra (ultima edizione, SL 2017) e La notte di Roma (2015); con Steve Della Casa e Giordano Saviotti, la graphic novel Acido fenico (2016); nel 2018 ha pubblicato L’agente del caos. Ha curato le antologie Crimini (2005) e Crimini italiani (2008). Nel 2019 sono usciti Alba nera (Rizzoli) e Quasi per caso (Mondadori). Insieme a Graziano Diana ha diretto il documentario Il combattente. Come si diventa Pertini, tratto dal suo libro omonimo (Rizzoli 2014). Nel 2020 ha pubblicato per Einaudi Io sono il castigo. Un caso per Manrico Spinori.

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