Sabrina Ceni
L’Araldo della Terza Parte
Ali Ribelli Edizioni, 2021
Recensione di Patrizia Debicke
Una sfida intrapresa e vinta quella di Sabrina Ceni con L’Araldo della Terza Parte, sequel del suo primo romanzo Arpaïs. La memoria delle anime imperfette, intrepida e colta ricostruzione romanzata che coniuga con destrezza l’anima catara di Montsegur alla vivace eresia patarina di Firenze.
Un argomento complesso, vastissimo, che rischiava di prestarsi a forzature, tutte scansate con abilità da Sabrina Ceni, che ha scelto di avvalersi di una cornice storica ambientale ricostruita minuziosamente nei minimi particolari.
La tradizione occitana, legata all’orrore del massacro di Montsegur, ci narra della famiglia della protagonista, alla quale la Ceni ha lasciato tutta la sua intrinseca realtà, limitandosi a regalarle un nome diverso e più incisivo, Arpaïs.
1939. Presso la Biblioteca di Firenze il padre domenicano Antoine Dondaine riesce a decifrare un’iscrizione crittografata su un codice e scopre che si tratta di un testo cataro, Liber de Duobus, rimasto celato per secoli. Si tratta di un codice pergamenaceo di piccole dimensioni, confiscato, insieme ad altri, dal convento domenicano di San Marco con il decreto imperiale del 13 settembre 1810, e finito nei beni dei “Conventi soppressi” della Biblioteca. Il documento è stato tradotto la prima volta in lingua italiana nel 1997, a cura di Francesco Zambon, e inserito all’interno de La cena segreta, una raccolta di trattati e rituali catari edita dalla casa editrice Adelphi.
Bibbona, Fonte di Bacco, febbraio 2009. Un archeologo ritrova nei resti di una antica vasca all’Arco di Bacco tre chiavi che rimandano a una misteriosa leggenda locale. Una leggenda che parla di qualcuno che avrebbe nascosto un documento sacrilego in una tomba etrusca e sarebbe fuggito, gettando le chiavi dello scrigno che lo custodiva proprio qui, nella Fonte di Bacco; non si tratta però di un cavaliere templare, come si sarebbe potuto credere, ma di una bambina…
Nel 1244. Arpaïs ha solo tredici anni ed è una ragazzina dotata di particolari facoltà divinatorie e di una memoria straordinaria, costretta a fuggire dopo aver visto bruciare la sua città e la sua gente. Lei e suo padre, miracolosamente sopravvissuti all’attacco e al rogo, sono stati tuttavia costretti a lasciare tutto e a separarsi. Il padre cercherà con alcuni compagni di raggiungere la Spagna, Arpaïs invece, con altri bons òmes, definizione che i catari francesi davano di sé, raggiungerà il nord Italia e troverà rifugio provvisorio vicino a Sirmione, sul lago di Benaco (Garda). Vorrebbe restare con i confratelli, ma gli inquisitori braccano implacabili la sua gente e il suo compito non è finito. Ragion per cui anche contro la sua volontà, armata dell’arco che usa con infallibile mira, dovrà riprendere il cammino al seguito di un mercante amico e protettore, fino a raggiungere una potente famiglia fiorentina che vive fuori città. Là dovrà restare nascosta fingendosi un ragazzo di stalla. Nessuno dovrà sospettare di lei, sarebbe troppo rischioso.
Porta con sé, infatti, cucita nel mantello, la copia su pergamena di un antico manoscritto: l’Interrogatio Iohannis, unica testimonianza, memoria e speranza per la sopravvivenza degli ideali della sua gente. Copia che dovrà consegnare a Firenze o meglio a Fiorenza, covo di inganni, scontri e lotte intestine, presso la sua destinazione e nuovo rifugio, la casa di un reputato medico cataro, troppo spesso imputato di eresia.
Arpaïs saprà imparare a vivere tra quelle mura, ma saprà anche temerle e ad amarle, come dovrà imparare a temere e ad amare gli abitanti di quella città.
Tanti sono i personaggi realmente vissuti che ritroviamo pagina dopo pagina nel romanzo: oltre ad Arpaïs, c’è un altro grande protagonista, Manente degli Uberti, detto Farinata per i suoi chiarissimi capelli biondi, il famoso condottiero ghibellino citato anche nell’Inferno di Dante Alighieri, che lo colloca nel girone degli eresiarchi.
Farinata degli Uberti sarà un interprete e un simbolo in questa storia, soprattutto per il costante rapporto di amicizia e protezione con Arpaïs. Farinata, identificato con il lupo, onirico e inconscio simbolo magico per Arpaïs, e per lei riconoscibile da certe antiche leggende sull’origine del casato degli Uberti.
L’ambientazione, i personaggi e gli eventi storici che gravitano intorno alla protagonista sono quasi tutti reali e l’autrice se ne è avvalsa per costruire accuratamente una storia in cui ha saputo ben mischiare realtà e fantasia.
Un romanzo che evidenzia una profonda conoscenza delle vicende di quell’epoca; anche se il tema principale rimane il catarismo, emergerà con prepotenza la lotta fratricida fra Guelfi e Ghibellini, legata alla profonda valenza di valori quali l’onore, l’amore, l’amicizia, la fedeltà, il dolore, la paura, l’abbandono e i drammatici tradimenti della Firenze del XIII secolo. Non la Firenze che conosciamo, con la quattrocentesca cupola del Brunelleschi e lo splendore del Palazzo Vecchio, ma una Firenze medioevale buia, fatta di vicoli stretti e luridi, con le torri simbolo di potere che impediscono persino alla luce del sole di passare. La Firenze violenta, dura, dominata dall’odio e dalla ferocia quasi primordiali, che covano fino a esplodere incontenibili, con conseguenze crudeli e distruttive, in sospetti che portano a repentini attacchi e delitti.
Farinata, figlio di Jacopo degli Uberti, visse a Firenze all’inizio del XIII secolo, una delle epoche più contrastate per la città toscana, divisa tra guelfi, i sostenitori papali, e ghibellini, i sostenitori imperiali, di cui Farinata faceva parte. Su questo sfondo regnava il feroce scontro per il governo della città fiorentina, che vide alternarsi le due fazioni al potere con continue reciproche violenze. Dal 1239 Farinata, a capo della consorteria di parte ghibellina, ebbe un ruolo importantissimo nella cacciata dei Guelfi avvenuta pochi anni dopo, nel 1248, sotto il regime del vicario imperiale Federico di Antiochia, figlio dell’imperatore Federico II.
Ma gli Uberti, come parte dell’élite ghibellina, furono poi esiliati quando al potere tornarono gli esponenti delle famiglie di appartenenza guelfa (1251). E per sfuggire a prigionia, torture e morte, nel 1258 i membri della famiglia trovarono scampo a Siena, dove restarono protetti da Provenzano Salvani fino alla battaglia di Montaperti tra guelfi e ghibellini (4 settembre 1260), quando i ghibellini senesi misero in atto astuti trucchi per far credere ai guelfi fiorentini di disporre di un esercito molto più numeroso del reale e in cui Farinata degli Uberti, con i suoi fidi, combatté da protagonista. Battaglia vinta strepitosamente dai Ghibellini.
Nella dieta di Empoli che ne seguì, Farinata dimostrò il suo amor patrio fiorentino opponendosi alla proposta di Pisa e di Siena di radere al suolo Firenze.
La corrispondenza tra Arpaïs e il padre, che regala continuità nel racconto, consente di sottolineare i percorsi attraverso i quali i bons òmes riuscirono a fuggire non solo verso la penisola italiana, ma anche verso l’Aragona, Mallorca e la Sicilia, spesso grazie all’aiuto di quei templari che appartenevano a famiglie decimate durante la crociata albigese.
Un bel romanzo storico con una gradevole punta esoterica favolistica, denso di citazioni e riferimenti ambientali che ci immettono nella vita civile e militare nel XIII secolo. Addirittura alcuni capitoli, quelli che riguardano la battaglia di Montaperti tra le truppe Guelfe capeggiate da Firenze e quelle Ghibelline capeggiate da Siena, sembrano un manuale guerresco d’epoca con nozioni di tattica militare e descrizioni dettagliate. Un perfetto scenario, uno specchio degli usi e costumi della società di allora, quasi un saggio, con accorgimenti stilistici e di vocabolario che lo collegano strettamente all’epoca narrata, vedi alcune parole in occitano e antico fiorentino.
Grazie poi all’autrice per le mappe, i luoghi, i personaggi e il glossario, inseriti all’inizio e di grande aiuto per chi legge per comprendere meglio ogni particolare del romanzo. Utile e chiara la spiegazione della ostinata persecuzione da parte dell’Inquisizione di quello che restava della comunità Catara i cui superstiti, dopo la Crociata Albigese e il tragico rogo di Montsegur, s’incamminarono sulle rotte dei pellegrini e dei mercanti verso l’Aragona, la Lombardia e l’Italia centrale. Una comunità da allora sempre costretta a nascondersi ma determinata a conservare la propria identità non solo religiosa, a preservare le proprie radici, aiutata per fortuna da una rete di protezione che ne appoggiò la migrazione verso posti sicuri. Un esodo che si estese dal Nord al Sud dell’Italia, fino alla Sicilia e, forse, oltre.
Guardo ancora oggi muta e impotente quanto, in questo nostro mondo attuale, in cui scienza, cultura e progresso dovrebbero avere almeno aperto parzialmente la mente umana, come le più astruse interpretazioni di differenze religiose vengano usate a comando per milioni di motivi che niente hanno a vedere con la religione. Motivi, ieri come oggi, governati in genere solo da politiche e scelte di convenienza umana.
Sabrina Ceni è un’autrice di Rignano appassionata di storia, in particolare di quella medievale. Nel 2017 ha pubblicato il saggio “I catari, veri cristiani delle origini o eretici?” (Bonanno) e il romanzo “Arpaïs, la memoria delle anime imperfette” (Delos Books). Nel 2019 scrive “La strada per Miransù”, un racconto ambientato tra Rignano sull’Arno e Bagno a Ripoli negli anni della Resistenza. Nel 2020 Ali Ribelli Edizioni ripropone una nuova versione di “Arpaïs la memoria delle anime imperfette” e nel 2021 pubblica il seguito “L’Araldo della Terza Parte”.
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