Christophe Palomar
La crisi colpisce anche di sabato
Ponte alle Grazie, 2021
Recensione di Patrizia Debicke
Testaccio, Roma, ventesimo rione il cui nome deriva dal cosiddetto “monte” (mons Testaceus): una collina artificiale alta 35 metri formata da cocci (testae, in latino) e detriti vari, accumulatisi nei secoli come residuo dei trasporti che facevano capo al vicino porto di Ripa Grande (Emporium). Ancora unico nello spirito per le radici popolari e l’aria di romanità che si respira per le vie del quartiere, ascoltando magari le chiacchiere dei suoi abitanti, quelli che hanno Roma nel sangue e le appartengono. In una giornata di classica ottobrata della capitale, né troppo caldo né troppo freddo,
affacciato alla finestra dell’appartamento di famiglia dove è nato e cresciuto, ma ciociaro di razza, Adriano Pasciuti, sessantenne, orfano, prepensionato delle Poste, contempla distaccato sia il tramonto dell’estate che lo scorrere della vita altrui mentre metaforicamente mugugna sulla propria, sulla passata giovinezza, sui sogni di una falsa rivoluzione, sul divorzio dopo un lungo matrimonio sbagliato, sulle delusioni del lavoro a cui ha dato ingenuamente l’anima. Stufo di rappresentare ancora qualcosa. Stufo di stare a sentire e stare in qualche modo dietro all’attualità.
A Milano, in un grande e anonimo magazzino di Corsico, facciamo invece la conoscenza con il secondo importante personaggio della storia: Gioia Airaghi, manager in prima linea di una multinazionale, impegnata a scegliere un registratore per inchiodare il fedifrago Filippo, suo marito. Ambiziosa ma sfiduciata, delusa dalla vita e dal lavoro e trascurata anche dalla figlia adolescente Valentina. Precisa al limite dell’ossessione, ogni settimana Gioia scrive la lista delle cose da fare: scarica sul lavoro lo stress ampliato dallo smart working, corollario obbligatorio del COVID.
Uno specchio rivelatore del “pessimo” rapporto tra le donne e il lavoro in Italia, rapporto governato da un inguaribile patriarcato che le costringe sempre a superarsi e a fare di più rispetto agli uomini. E per cosa, poi, se tanto in cambio hanno comunque meno denaro e meno riconoscimenti? Gioia si condanna a restare sola in città, per rimettersi in pari col lavoro arretrato, in compagnia della vodka e della memoria di amori perduti del passato. Sarà giunto forse il momento di una telefonata, quasi un grido di aiuto, a suo fratello Ugo? Timido, educato, bibliotecario senza ambizione, inveterato cultore della collana Adelphi (a un certo punto conoscerà persino il fondatore, Roberto Calasso), Ugo in famiglia non conta, ragion per cui tace e si defila perché a lui basta la sua piccola grande vita, fatta di cose per lui importanti: Jamila, compagna segreta, e le piante grasse. Ugo, che si vorrebbe far passare per un personaggio secondario, è forse il pilastro su cui si regge il romanzo, perché rappresenta l’equilibrio, il motivo stesso per cui vale la pena scrivere e leggere questa storia.
La vera unica libertà per lui risiede nella cultura e se ne frega altamente delle opinioni della gente. In questo spietato ma vero affresco italiano, tirate le somme Ugo diventerà forse l’unico degno di salvezza.
E infine il “branchetto” di sei amici ferraresi che, dopo avere visto al cinema la modernissima revisione del film Avatar, si ritrovano in pizzeria. Attori di azioni e dinamiche talmente noiose e scontate ai quali Palomar rifiuta perfino di dare un nome, limitandosi a definirli con un numero: ragazzo uno, due, tre, ragazza uno, due, tre… La generazione di quelli che erano preparati a vivere in un mondo che doveva essere facile, ricco e libero, secondo le promesse di certi osannati politici da talk-show, e sono invece costretti a vivere in un mondo che traballa trasformando i più nel popolo della malinconia, dell’umiliazione, della rabbia.
Una cosa appare certa: a partire da quel sabato, colto in tre momenti contemporanei, in tre città, in tre generazioni e tre diverse condizioni sociali, la vita di ciascuno di loro non sarà più la stessa.
La crisi colpisce anche di sabato, infatti, si trasforma nel crudo e ironico romanzo/documentario in cui Palomar racconta, con passione scevra di ogni pregiudizio, trent’anni di vita italiana attraverso le storie di personaggi colti nella loro quotidianità per arrivare all’Italia di oggi, ove una straordinaria crisi pandemica ha fatto precipitare tutto e tutti in una normale a-normalità.
Una crisi non solo italiana anche se sempre all’italiana, e quindi diversa. In questa Italia infatti si muovono anche personaggi stranieri, come Baumgartner, vicino di casa di Adriano Pasciuti, uno stagionato tedesco solitario, alto e biondo, innamorato di Roma dove vive da ventitré anni, ma che forse ha deciso di tornare in Germania… O le due Marie del ristorante cinese di Milano ai cui tavoli siedono quelli che stentano ad arrivare a fine mese, che chiedono il supplemento delle focaccine (sempre gratis). O il distaccato cinese del bar di Roma dove quella stessa crisi spinge i disperati a credere nell’impossibile vincita alle macchinette…
Una crisi morale e materiale, specifica e sociale, forse senza un tempo e senza una soluzione, ben descritta da Palomar nel suo lungo racconto corale di luoghi e vite sospese per poi stupirci colpendo duro con i suoi imprevedibili fuochi di artificio del teatrale colpo di scena finale.
Ma in fondo, non stiamo vivendo questi tempi come se fossimo in un eterno sabato? E allora sfruttiamo l’alienante esperienza per leggere questo romanzo ambientato a cavallo tra le prime due ondate di Covid-19, in un periodo aleggia la speranza che magari l’incubo stia per finire.
Christophe Palomar, nato in Alsazia da padre italiano e madre spagnola, cresce a Tunisi. Studia alla HEC di Parigi e alla Bocconi prima di intraprendere la carriera di manager. Dal 2017 divide il suo tempo fra la consulenza per le aziende e la letteratura. Dopo la partecipazione al libro collettivo Occhi mediterranei (Pendragon, 2019) pubblica per Ponte alle Grazie Frieda (2020), che ottiene ampi e qualificati consensi. La crisi colpisce anche di sabato è il suo secondo romanzo.
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