RIP Biagio Proietti

Era il 2007 (15 anni fa!) quando Biagio Proietti pubblicava con l’editore Flaccovio Io sono la prova. In quell’occasione lo intervistai. Oggi – lo rende noto la famiglia su Facebook – Biagio non c’è più. Lo saluto ripubblicando quella bella, densa intervista miracolosamente sopravvissuta al vecchio blog.

RIP, Biagio.

(AB)

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AB – Iniziamo dalla tua biografia: ho letto qualcosa sul sito del tuo editore. Un paio di notizie si trovano anche su MyMovies. Colgo l’occasione per dirti che a suo tempo sia Chewingum che Puro Cachemire mi sono piaciuti moltissimo (avevo l’età giusta…). Troppi pochi dettagli per uno che, come te, ha passato la vita tra cinema e televisione… Raccontami qualcosa di più!
BP – Una domanda semplice, la tua, che apre un mare di risposte. Pur non essendo vecchio (o quanto meno non sentendomi tale), tra poco festeggerò le nozze d’oro con la mia professione, avendo cominciato da giovanissimo ad occuparmi di spettacolo. Prima organizzando cineclub, quindi facendo l’aiuto regista fino a scrivere per la radio e per il cinema.

Nel 1968 Rossano Brazzi, reduce da un enorme successo in televisione con Melissa, mi chiese di scrivergli una storia. Scrissi il soggetto di Coralba. La RAI lo comprò come romanzo inedito e poi mi fece il contratto per scrivere la sceneggiatura insieme a Daniele D’Anza, che sarebbe stato il regista. Con Daniele nacque un forte rapporto di amicizia e di stima che ci fece continuare a lavorare insieme fino al 1984, anno triste della sua morte prematura. Insieme abbiamo dato vita a successi come Ho incontrato un’ombra, Madame Bovary, L’ultimo aereo per Venezia, Racconti fantastici da Edgar Allan Poe. Ho l’unico rimpianto non essere riusciti a realizzare un film che abbiamo scritto insieme e che adesso spero di pubblicare come romanzo, dal titolo L’altra faccia della Luna, una storia di mistero e d’amore al limite del fantastico.

Di attori e di personaggi nella mia vita ne ho incontrati tanti e molti hanno lasciato il segno. Mi piace ricordare Alberto Lupo per il quale scrissi due sceneggiati (allora la fiction si chiamava così): Un certo Harry Brent e Come un uragano.
Alberto aveva allora un successo enorme ma era un uomo dolcissimo, molto attento ai rapporti con le persone. Non lo frequentai per un periodo lungo perché a quel tempo non facevo il regista e i rapporti fra autore e attori spesso si chiudevano una volta consegnati i copioni. Con lui invece diventammo amici pur non frequentandoci.
Se vi ricordate, lui fu colpito da un ictus e dopo una lotta durata anni riuscì a riprendere non solo a vivere ma anche a lavorare di nuovo.
Io lo incontrai in una circostanza triste, mentre stavo girando Chewingum, e gli promisi che, appena finito il film, sarei andato a trovarlo al Circeo, dove lui abitava e io avevo una piccola casa. Ricordo che era agosto ed entro un paio di settimane il film sarebbe finito. Una sera il telegiornale disse che Alberto era morto. Dopo tanti anni io ancora rimpiango di aver perso un appuntamento al quale tenevo.

Come autore e regista del film tv Sound – una storia di fantascienza e di mistero – ho lavorato con un attore che è stato per molti un mito: Peter Fonda. Lavorando con Peter mi sembrava di vivere con la storia del cinema, per via del padre Henry e della sorella Jane.

Le serate che passavamo insieme – eravamo a L’Aquila per gli esterni – erano un continuo racconto da parte sua, stimolato da me che lo riempivo di domande. Non è da tutti i giorni avere a disposizione un simbolo vivente del cinema. Anche in un professionista come me viveva – e vive ancora, per fortuna – lo spirito del ragazzo innamorato del cinema che avrebbe fatto (e ha fatto carte false) per realizzare il sogno di fare il cinema.

Ancora adesso a volte mi chiedo se sto sognando o no.

Nel 1968, all’epoca del successo del western spaghetti, lavorai  per un western girato sotto la neve con John Ireland, che forse non molti ricorderanno, che aveva interpretato molti film di John Ford, e da lui mi feci raccontare episodi e vita di un grande regista che forse come uomo era meno simpatico.

Ma per fortuna contano i film, quelli restano.

Vorrei finire questo giro di ricordi pensando a Monica Vitti che interpretò nel ’66 il primo film che scrissi, per la regia di Maselli, Fai in fretta a uccidermi… Ho freddo, dove ero anche aiuto regista. Lei veniva dai successi di Antonioni ma stava passando alla commedia, alla ricerca di un successo popolare che sarebbe venuto. Una donna difficile ma affascinante, piena di dubbi e di problemi, ma tutto si dissolveva quando entrava in scena e cominciava a recitare: la magia del cinema scattava (e purtroppo non sempre accade). Con lei invece succedeva sempre e mi piace ricordarla anche se sono passati più di quaranta anni e io allora ero quasi un ragazzo.

AB – Hai iniziato a pubblicare libri abbastanza tardi. Come mai solo adesso e come mai gialli?
BP – La risposta è complessa ma anche facile. Ho sempre avuto una scrittura visiva, penso e costruisco storie per immagini da quando era bambino, quindi è stato naturale pensare subito al cinema e alla televisione. Anche perché la critica di allora diceva che la letteratura era un’altra cosa. Non ho mai capito cosa intendessero e non lo capisco neanche ora. Avendo anche avuto successo, è stato naturale per anni dedicarmi solo al mondo dello spettacolo senza scrivere romanzi. Allora scrivevo per mio piacere, prevalentemente racconti, che adesso ho ritrovato, ho corretto e sto inserendo in una raccolta che spero di pubblicare.

Il primo romanzo è la versione letteraria del più grosso successo televisivo, scritto con mia moglie, Diana Crispo, Dov’è Anna?, pubblicato allora da un editore importante come Rizzoli (e oggi ripubblicato da 21 Editore, n.d.b.). Ricordo che fu una fatica adattare un lavoro scritto con un linguaggio televisivo ad uno stile letterario, ma il romanzo ebbe successo.
A rileggerlo, ho trovato diversità di stile rispetto a come scrivo adesso, ma trenta anni per fortuna non passano inutilmente. Adesso lo sto rivedendo, mi viene da dire ripulendo, per arrivare allo stile secco che mi sono ormai conquistato, perché voglio farlo ripubblicare.
La storia è sempre molto bella (scusate l’apparente immodestia): una cosa che tutti – pubblico e critica – mi hanno sempre riconosciuto è quella di saper costruire “macchine” che funzionano, per ritmo, per inventiva nei personaggi, protagonisti e comprimari, per secchezza ed efficacia nei dialoghi.
Voglio confessare una cosa che non ho mai detto così esplicitamente. Ma con un’amica come te viene facile aprirsi: la vera ragione per la quale ho cominciato a scrivere romanzi (e a pubblicarli) è nel diverso rapporto che si è creato con la televisione e con il cinema. Non mi piace quello che si fa al momento e soprattutto loro mi hanno considerato un “vecchio” superato e allora è stato naturale scrivere le mie storie in forma di romanzo superando la paura che ho sempre avuto: di essere bravo a scrivere storie ma di non avere uno stile  letterario.
Dopo due romanzi pubblicati, molti racconti in varie antologie, diciamo che adesso queste paure sono superate, quindi aspettatevi un mare di romanzi e di racconti.
Alcuni li ho già scritti e stanno in attesa di venire alla luce.
Un lavoro che mi piace e mi porta via tanto tempo è la rifinitura finale, visto che adesso quello che scrivo non viene trasformato da qualcosa d’altro ma arriva direttamente al pubblico.

Lo scrittore è completamente padrone delle proprie opere e non arriva al pubblico attraverso la mediazione di attori e di un regista.

Mi chiedi, perché scrivo gialli? Da sempre ho amato questo genere, gli scrittori che  amo di più, in assoluto, sono Chandler e Hammett. Non lo considero un genere secondario ma solo uno stile, un modo di raccontare. Soprattutto mi piace molto raccontare il lato oscuro della vita, cercare di esplorare l’altra faccia della luna. Credo di saper scrivere anche commedie, ho sceneggiato di tutto, anche capolavori come Madame Bovary, ma il mistero mi attrae in modo pericoloso, quasi morboso, in tutte le sue forme: io non sopporto le divisioni che spesso si fanno fra giallo, noir, horror, fantasy, io dico sempre che mi sento una vecchia nonna seduta davanti al camino che racconta storie, affascinando i suoi nipotini. Il giallo richiede scansione, ritmo, drammaticità ma quando non si limita ad essere un rebus  diventa un formidabile strumento per scavare nella vita. Come dico in Io sono la prova, un delitto è come uno specchio: costringe a guardarti dentro, cercando di capire chi sei e chi sono quelli che ti vivono accanto.

AB – In Io sono la prova non c’è un solo protagonista. Ogni personaggio ha un certo “peso”, un certo spessore. Come mai questa scelta quasi “corale”?
BP – Io sono cresciuto a pane (tanto, purtroppo) e cinema americano, ho sempre amato tutti i film di genere, dal western al musical (considero un mio trionfo personale aver corrotto una mia amica impegnatissima politicamente e grande antropologa fino a farle ammettere che, per merito mio, aveva capito e amato Cantando sotto la pioggia), dal noir al gangster movie.
Se si riflette, la grande ricchezza del cinema americano è proprio la coralità. Non ci sono solo i protagonisti ma tutti i personaggi, anche quelli che appaiono per pochi minuti, sono descritti in modo da rimanerti impressi nella memoria.
Pensate al successo di tanti caratteristi che hanno attraversato la lunga storia del cinema, facendo rivivere una intensa galleria di personaggi, a volte più incisivi e riusciti dei protagonisti. Io ho sempre seguito questa linea, anche in cinema e in TV, ma spesso i risultati sono stati deludenti per un motivo pratico: la tendenza dell’apparato produttivo a far recitare i ruoli minori da amici e parenti per risparmiare. Ora nei romanzi questo limite per fortuna non esiste e così le mie creature sembrano vivere una vita propria, luminosa e splendente, anche se vivono solo in una o due pagine.

Io trovo che nella vita girano tanti personaggi, buoni e cattivi, che vale la pena di tentare di descrivere. Non sono un solitario che scrive chiuso nella sua torre eburnea ma uno che vive in mezzo alla gente e cerca – a volte ci riesco – di farla rivivere. E state attenti se mi incontrate perché io mi sento un po’ Dracula che succhia il sangue e ruba la vita a chi gli capita vicino.

Tanti miei amici ogni tanto si ritrovano nelle mie storie ma finora nessuno di loro ha tentato di uccidermi.

E neanche di querelarmi.

AB – È una storia di fantasia? Per certi versi l’omicidio di Rosanna richiama quello di Simonetta Cesaroni, mi sembra. Ma al di là di questo, che origine hanno gli altri personaggi?
BP – Io non parto mai da un episodio reale ma porto, dentro una storia di fantasia, profumi e sensazioni legate a un fatto realmente accaduto. Questa non è la ricostruzione del delitto di via Poma nel quale fu uccisa la Cesaroni, ma ho voluto dare a una storia, del tutto inventata, alcuni sapori di realtà, per rendere più facile e immediato il rapporto storia-pubblico.

Nessuno di noi conosce fino in fondo la vera storia del delitto Cesaroni (neanche gli investigatori, al momento) ma pensiamo subito a quello quando si parla della morte di una ragazza e di un delitto rimasto irrisolto dopo tanti anni.

Di solito, per cominciare una storia non penso mai a un fatto ma a un personaggio. La partenza è sempre quella di pensare a quale reazione avrebbe un certo personaggio di fronte a un fatto drammatico. Diciamo la verità: chi di noi non ha mai pensato quale reazione avrebbe, di fronte alla scomparsa di una persona amata o alla morte di qualcuno che ti stava vivendo accanto.
E che, di colpo, scopri di non aver conosciuto affatto.
Gettate un sasso nell’acqua e vedete quanti cerchi nascono. Le mie storie sono questi cerchi, che io tento di descrivere. A volte non sempre i cerchi si fermano, a volte spariscono rapidamente. Ma questo è l’aspetto divertente seppure molto faticoso dell’arte di scrivere: a volte l’acqua ti rimane in mano, a volte ti sfugge, senza risultati. Io continuo a lanciare sassi, vediamo cosa accadrà. Al momento, le reazioni del pubblico e della critica mi sembrano ottime.

Per sapere se anche voi siete o no d’accordo con chi mi ama non vi resta che acquistare il libro e leggerlo. Non vi stupite del mio invito così esplicito, nella mia lunga vita ho scritto e diretto anche qualche Carosello.

La pubblicità mi è rimasta addosso.

AB – I capitoli di Io sono la prova hanno titoli di canzoni, film e libri. Come li hai selezionati?
BP – L’idea di dare un titolo ai capitoli mi è sempre piaciuta ma finora non avevo trovato il modo. Qui mi è venuto spontaneo e non è stato difficile farlo, perché in realtà questi titoli sono una forma di confessione, dove dichiaro tutto quello che ho amato e amo ancora nella musica, nel cinema, in letteratura. Qualche titolo ho dovuto eliminarlo perché non si collegava al tema del capitolo, perché in realtà i titoli dovrebbero servire anche a suggerire atmosfere, a facilitare emozioni e sentimenti. Diciamo che in questo modo ho potuto creare un rapporto di complicità con il lettore, mettendomi a nudo.

E devo dire, sono felice che quasi tutti abbiano accolto questa idea nel senso vero, senza pensare ad una trovata superficiale o di pura civetteria. Un critico ha contato che ho messo 6 Bob Dylan e 4 Paolo Conte, ma ci sono anche il mio amato Miles Davis e Jimmy Hendrix, per fare capire che i miei gusti sono come la mia mole: io sono omnivoro, tento di divorare tutto quello che mi piace. Nello spirito ha minori effetti disastrosi che sul mio corpo. E poi mi ha fatto un piacere enorme dichiarare il mio amore infinito per scrittori come Chandler, Hammett e Raymond Carver. Un nano di fronte a giganti, ma almeno sono felice di aver scelto questi giganti.

AB – Rivedremo Daniela Brondi?
BP – Io sono innamorato di Daniela Brondi, è la mia donna ideale e non l’abbandonerò mai. Anche perché quando l’ho inventata per la prima volta, in Una vita sprecata, pensavo che la storia sarebbe terminata lì. In realtà è stata la reazione del pubblico a farmi capire di aver dato vita ad un personaggio che rimaneva nella memoria, che piaceva molto. Per il suo coraggio e per la sua capacità di mettersi in gioco. Mi dispiace per i maschietti, ma in questo momento sono le donne a dimostrare di avere più palle, di avere tanta forza, da correre  il rischio di giocarsi tutto. Anche la vita.

AB – Su cosa stai lavorando adesso?
BP – Sto scrivendo un romanzo molto diverso dagli altri due, ma Daniela ci sarà ancora. E continuando a farla vivere, non ho idee precise in testa. Non so esattamente cosa farà e come svilupperà la sua vita privata. Sarà la storia del nuovo romanzo a plasmare Daniela facendole fare alcune gesta invece che altre.

Io e mia moglie, Diana Crispo – con la quale ho anche lavorato spesso – viviamo insieme dal 1968. Forse riuscirò ad avere un rapporto così longevo e felice anche con la mia Daniela, una donna più giovane di me, nella quale cerco di riversare le mie virtù – sempre che ci siano – e sicuramente anche i miei difetti.

AB – Una vita eccezionale, certo una vita “non sprecata”, la tua. Hai qualche rimpianto? Qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto?
BP – Solo i cretini non hanno rimpianti ma io soprattutto ho ricordi. Felici o tristi, i ricordi significano cose che hai fatto, persone che hai conosciuto, hai amato o odiato.
I rimpianti sono legati a fatti esistenziali: mia madre è scomparsa troppo presto, prima che io le  potessi restituire, almeno in parte, tutto quello che lei mi ha dato.
E poi credo che nella  vita di ognuno ci sia il pensiero di come sarebbe stata la vita se non fosse successa una certa cosa. O se fosse andata in modo diverso da come poi è andata.
Sul lavoro ho rimpianti ma forte solo uno: di non aver fatto il film che avrei voluto, e in particolare di non aver portato a termine un progetto con Sergio Leone. Giuliano Gemma aveva visto un mio film per la TV, Storia senza parole, al festival di Sorrento, gli era piaciuto molto e aveva portato Sergio Leone a vederlo. Anche a Leone piacque molto e mi propose di produrre un mio film. Preso da paura non sono riuscito a trovare una storia che fosse degna e così la prospettiva è scomparsa.

Mi piace ricordare il mio film perché segnava il debutto nella regia e da sceneggiatore famoso lo facevo con un film dove non c’era una parola di dialogo. Tutto si svolgeva solo attraverso le immagini e la musica. Il piacere è che vinsi molti festival e i critici lo premiarono come miglior film Tv del 1980.

Come vedi dai rimpianti sono finito nei ricordi. E Storia senza parole è uno dei più felici.

Per finire, vorrei dirti una cosa. Io sono felice per la mia “vita non sprecata”, non solo per i tanti momenti felici che ho avuto sia sul lavoro sia nella vita, ma anche per quelli dolorosi. Come dice un personaggio: “il dolore, quando non ti divora, ti unisce. Se non ti soffoca e ti lascia vivere, diventa un legame profondo. Più di qualunque altro sentimento”.

Forse ha torto una mia carissima amica quando dice che io sono un “signore, di quelli che non esistono più”: la voglia di vincere e l’ambizione mi portano a dire e a fare di tutto.

Però dentro di me penso che lei abbia ragione e per questo le voglio bene.

**

Biagio Proietti
Io sono la prova
Dario Flaccovio editore
Pagine 288
Prezzo 13,50 euro

Tre mesi. Solo tre mesi di tempo per risolvere un omicidio vecchio di quattro anni, quello di Rossana Turchetti, strangolata nell’ufficio in cui lavorava. Di quell’omicidio era stato sospettato Marco Dori. Marco, che si era spostato a Mantova proprio per sfuggire a quell’incubo (la storia è raccontata nel precedente Una vita sprecata) e che adesso è tornato a Roma. Sul caso di Rosanna indaga il commissario Daniela Brondi – per adempiere a una promessa, più che per reale convinzione.
Bisogna tornare indietro di quattro anni e rimestare nelle braci di un dolore ancora vivo e presente nei sopravvissuti. Ma anche Chiara Galli, giornalista, sguazza in quel vecchio caso che improvvisamente torna alla ribalta.
Basteranno molto meno di tre mesi per portare a termine la missione. Ma a che prezzo…

Biagio Proietti ha scritto un giallo teso e convincente. Prosa asciutta e scorrevole, personaggi che catturano con le loro storie e umane debolezze, un finale che mette i brividi (e che ovviamente non si può dire). Leggere per credere.

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