Christian Bartolomeo
S. Ippolito martire. Il centurione della fede
Edizioni Tau
Recensione di Roberto Mistretta
Già noto ai lettori con Le Quindici (Navarra editore), opera selezionata per rappresentare la Sicilia alla VI edizione del prestigioso concorso letterario “La Giara”, indetto da RAI e RAI-Eri dove conquistò la Giara d’argento, e con Malagloria (Mursia), lo scrittore di Raffadali Christian Bartolomeo porta il lettore nel cuore dell’antica Roma con la sua ultima opera, S. Ippolito martire. Il centurione della fede, e nonostante le scarne notizie l’autore riesce a far vivere e palpitare i suoi personaggi, restituendo l’atmosfera della Roma antica.
Santa Caterina da Siena diceva: Non accontentatevi delle piccole cose, Dio le vuole grandi. Cosa significa per uno scrittore agrigentino, che vive a Gioia Tauro, cittadina calabra il cui Santo Patrono è proprio Ippolito, avere pubblicato la sua storia?
A Gioia Tauro mi dicono che S. Ippolito è amante dei forestieri, quindi nel mio caso calza a pennello. In realtà ho colto solo un’occasione irripetibile: la “folle” risposta di romanzare la vita del Santo Patrono di Gioia Tauro è arrivata da don Antonio Scordo, parroco del Duomo di S. Ippolito Martire. Considero lui il vero padre di questo romanzo. E ringrazio il vescovo Francesco Milito che ha voluto scrivermi la prefazione, benedicendo il romanzo. Adesso Ippolito ha iniziato il suo viaggio in tutta Italia e chissà come finirà; vivo tutto con sorpresa, ma non mettiamo limiti a S. Ippolito!
Come ti sei trovato a dare voce al centurione Ippolito nella Roma delle persecuzioni cristiane?
È stato un viaggio appassionante, totalmente coinvolgente, seppure in una cornice così terribile come quella delle persecuzioni dei cristiani. Ippolito, amico dell’imperatore Valeriano, era un ricco e libertino centurione romano che apparteneva a quel circo di morte. L’incontro con San Lorenzo, un suo carcerato, lo sconvolge talmente tanto che la sua vita cade a pezzi, si sgretola in cocci e necessita una ricostruzione dalle fondamenta. È una storia straordinaria di conversione che meritava di essere raccontata.
Come hai dosato la verità storica in una trama romanzata?
La ricerca storica, riportata interamente nella bibliografia in appendice al testo, mi ha permesso di ricostruire gli ultimi otto giorni di vita del centurione nella Roma del III sec. d.C. Ho inserito ogni minimo dettaglio ritrovato, arrivando a definire lo scheletro su cui ho tessuto l’intera trama del romanzo, rendendola credibile e veritiera secondo l’attendibilità delle fonti. Ho mantenuto i dialoghi originali fra S. Ippolito e S. Lorenzo che ho ritrovato nei testi originali degli Acta Sanctorum e nelle opere di S. Ambrogio, permettendomi soltanto di inserire gli innesti che ritenevo più appropriati, per non lasciare spazi vuoti alla narrazione.
Quanto ti ha impegnato lo studio del contesto storico per rendere così coerente e credibile la storia di questo santo poco conosciuto?
Circa sei mesi. Gran parte dell’ambientazione, oltre che dalla storia di Roma, l’avevo già scovata anni prima nei volumi di Maria Valtorta, la mistica che ha descritto in maniera incredibile ciò che accadeva ai cristiani dei primi secoli, compreso l’atroce martirio delle fiere. Ho anche avuto accesso ad alcuni testi antichi e in latino, respirando l’odore e l’atmosfera surreale che solo le biblioteche di clausura possono regalare. Questo lo devo ai rapporti umani nati dal mio primo romanzo, Le Quindici, ambientato proprio in una Certosa.
Qual è stato l’episodio più critico della gestione della tua opera?
Le mie storie nascono dalle mie radici, dalla mia terra, la Sicilia a cui penso sempre, e trovano sviluppo anche in Calabria, che mi ha adottato. Pensare di dare vita a un’opera lontana dalla mia “comfort zone”, trasferendomi in un’epoca così lontana, tralasciando le ambientazioni che appartengono a noi, gente del Sud, così come anche i dialettismi, o l’ironia che adoro inserire nei dialoghi, mi ha decisamente impegnato in fase di impostazione. Non solo. Nei miei romanzi cerco sempre di incastrare le storie, con un finale difficilmente prevedibile, sempre per tenere alta l’attenzione del lettore, per invogliarlo a voltare pagina. In S. Ippolito Martire, essendo scontato l’epilogo della morte, ho cercato di mantenere alta la prosa utilizzando il presente storico e provando a narrare l’uomo, i suoi dubbi, le sue debolezze e, infine, la sua irrinunciabile resa a Cristo.
Quanto di tuo come autore credente hai trasferito nei personaggi?
Spero di aver vestito i personaggi non solo delle mie ricerche fatte, ma anche della mia esperienza di cristiano, del mio intimo e personale percorso di riavvicinamento alla fede. La ricerca di Dio fa parte dell’uomo, credente e non. Così come il bisogno di risposte, il desiderio di non far morire la speranza. In Sant’Ippolito ho messo tutto quanto potevo, e forse gran parte di quello che sono o che vorrei essere; convinto che nelle fragilità diventiamo noi stessi credibili, veri. E che le fragilità possono, un giorno, diventare cemento, fortificarci. Renderci migliori.
Cosa ci insegna la storia di Ippolito martire? Cosa ci lascia il tuo romanzo?
Ippolito ci porta immancabilmente di fronte al suo bivio: quando si conosce, in maniera chiara e inequivocabile, la via e la verità di Cristo, qual è la nostra risposta? Il romanzo vuole porre questo interrogativo al lettore, spingendolo a scavare dentro se stesso. Ippolito diventa così un esempio, una bussola. La mia speranza è che il testo possa diventare un piccolo percorso edificante, dando luce a questo grande Santo, rendendogli l’onore che merita. La gente che lo ha letto e che mi scrive, racconta che durante la lettura si è sentita immersa nelle scene e nell’uomo Ippolito, e che adesso si sente più vicina al Santo perché ne ha compreso il sacrificio per Amore, arrivando a una confidenza quasi familiare. Pane per un autore come me che cerca energie per migliorarsi sempre.