Giada Trebeschi
Il convento dei segreti
Newton Compton Editori, 2022
Intervista e recensione di Roberto Mistretta
Velo e dolore. Giada Trebeschi con Il convento dei segreti porta il lettore nella Catania del 1600 e lo cala in un contesto di sopraffazione e annientamento della volontà delle donne. Il velo che copre, nasconde, divide, è un velo nero, oscuro, simbolo di sopraffazione e maschilismo che nella nostra come in altre culture, non dovrebbe più esistere. Questo è il velo che bisogna strappare, seppellire per sempre e da questo punto sono partita per scrivere il romanzo. Così l’autrice bolognese, storica e poliglotta, che vive a Colonia ma coltiva consolidate amicizie in Sicilia che in qualche modo sono all’origine di questo romanzo di clausura forzata ambientato nel 1669.
Si racconta dell’indomita Agata Maria Paternò della Bruga, monacata per forza col nome di suor Immacolata e fatta crescere fin da bambina tra le mura del convento delle Benedettine a Catania. La clausura forzata non placherà i palpiti del suo cuore che si infiammerà per il capoguardia Giorgio Bonajuto. Una travagliata e carnale storia d’amore che sboccia tra mura protette e dolci siciliani, ma con un finale ben diverso dalla ben più famosa storia di suor Marianna De Leyla, murata viva dopo lo scandalo, meglio nota come la monaca di Monza immortalata dal capolavoro manzoniano. Sarà il terremoto a ridare la libertà a suor Immacolata che però dovrà sfuggire al potente e crudele don Rolando Moncada, ben determinato a ritrovare il piccolo Pietro, suo nipote, che suor Immacolata protegge come figlio suo. Una storia d’amore e morte, sopraffazione e dolore, ma aperta alla speranza. Alla vita.
Abbiamo intervistato l’autrice.
Come ti sei trovata a entrare nei conventi siciliani del 1600?
L’idea è nata a Catania durante una passeggiata con un’amica in via dei Crociferi passando sotto al ponte che collega il monastero delle benedettine alla chiesa. La fascinazione del luogo, la lettura che casualmente avevo appena concluso del libro “Aut virum aut murum” di Silvana Raffaele e il fatto che ho studiato dalle domenicane, hanno suscitato in me il desiderio di raccontare della vita nei conventi e delle monacazioni forzate.
Come hai dosato la verità storica nella trama del romanzo?
Come sempre nei miei romanzi parto da fatti storici incontrovertibili, documentazione d’archivio e tutte le fonti che, da storica di professione, sono abituata ad usare. Poi cerco di creare personaggi di finzione ma plausibili in quel contesto storico, che si muovano e pensino come avrebbero fatto persone realmente esistite in quel momento e in quella società.
Quanto ti ha impegnato lo studio delle fonti storiche per rendere così coerente e credibile la storia e il contesto?
Il contesto storico è per me importante come i personaggi principali del romanzo che senza quel contesto non avrebbero ragione d’esistere perché agirebbero in modo diverso. Dunque lo studio del periodo è per me la base del romanzo. La Storia è il mio primo mestiere e sono quasi trent’anni che mi dedico allo studio del passato e la metodologia che lo caratterizza certamente mi aiuta molto quando faccio le ricerche per i romanzi.
Qual è stato l’episodio più critico della gestione della tua opera?
Forse quello della traduzione dialettale di alcune frasi perché era l’unica cosa che non avevo completamente nelle mie mani. Per fortuna mi sono potuta affidare a “madrelingua” molto competenti e di cui mi fido che hanno tradotto e reso perfettamente le tre varietà dialettali che si trovano nel romanzo, catanese, modicano e nicosiano gallo-italico.
Quanto di tuo come autrice hai trasferito nei personaggi?
Nei miei personaggi credo che ci sia sempre molto di ciò che sono ma tagliato a pezzetti. E questo forse avviene perché quando li tratteggio li impersono, ciascuno di loro, buoni e cattivi, uomini o donne, esattamente come ho imparato a fare a teatro. È da quando avevo diciott’anni che mi occupo di teatro professionalmente e confesso che uso il metodo Stanislavskij per entrare nei personaggi che plasmo, per renderli plausibili e tridimensionali donando, inevitabilmente, a ciascuno di loro una parte di me.
Quale lettore ideale immaginavi mentre romanzavi la storia di Agata Maria Paternò della Bruga, moncata per volere della famiglia col nome di suor Immacolata?
Quando scrivo non immagino mai un lettore ideale. Scrivo perché credo di avere una buona storia da raccontare che possa interessare.
Cosa ci insegna la storia di Agata/suor Immacolata? Cosa ci lascia il tuo romanzo?
Che c’è ancora molto lavoro da fare per togliere quel velo forzato che copre, nasconde, umilia le donne e la loro femminilità. Il convento dei segreti è ambientato più di trecento anni fa ma ci sono moltissimi parallelismi con situazioni che vediamo e viviamo ancora oggi e forse può offrire qualche spunto di riflessione per capire (e speriamo cambiare!) le basi storico-sociali della sottomissione femminile.
Santa Caterina da Siena diceva: Non accontentatevi delle piccole cose, Dio le vuole grandi. Cosa significa per una scrittrice bolognese che vive in Germania, avere pubblicato la sua storia di una donna catanese?
Grazie per aver citato Santa Caterina da Siena, domenicana e prima donna dottore della Chiesa. Non solo Dio vuole grandi cose ma, parafrasando il suo dire medioevale per attualizzarlo a oggi, direi: Non accontentatevi delle piccole cose, vi meritate le grandi. Sono bolognese ma ho sempre avuto una grande passione e un attaccamento viscerale al Sud, al mare nostrum e infatti il mio dottorato è in Storia del Mezzogiorno e dell’Europa Mediterranea. Raccontare della Sicilia era qualcosa che sarebbe accaduto prima o poi, e accadrà di nuovo, perché anche il romanzo per cui sto studiando ora sarà ambientato in Sicilia. In un altro periodo però. La donna catanese del romanzo prima di tutto è una donna e non fa differenza che sia di Catania, Bologna o Bonn. La monaca di Monza soffre tanto quanto la capinera verghiana, o sbaglio?